
Cosa fa il cibo?
Nutre, certo, ma è anche tante altre cose (e non serve essere antropologi per saperlo).
Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei.
Il cibo dice.
Dice prima di tutto la nostra appartenenza: a un territorio, a una classe sociale, a una tradizione familiare, a un’epoca…
Dice della nostra visione del mondo, delle nostre scelte di vita, dice del nostro bisogno di distinzione (o di omologazione), dice delle nostre ambizioni e dei nostri desideri…
Abbiamo incontrato per la prima volta Luana, occhi scuri, profondi e un gran bel sorriso, incuriositi da quella formula insolita nella quale ci eravamo imbattuti per caso: Cucina narrativa.
D’ impatto ero un po’ diffidente perché in questo momento la cucina va fin troppo di moda. Ovunque impazzano progetti di qualsiasi tipo: editoriali e non, blog, eventi di show cooking, home restaurant, programmi tv con tanto di chef trasformati in veri e propri brand, iniziative commerciali dai pretesti culinari più disparati… progetti di grande ma anche di scarsissima qualità, tutto pur di cavalcare il trend. La chiamano Food Economy.
Nella storia di cui vi parliamo però la direzione è un’altra: parliamo di ristorazione sì, ma non c’è alcun espediente ammiccante per attirare l’attenzione di un pubblico popolare (o, a seconda dei casi, fin troppo radical chic).
Qui piuttosto si sceglie la cucina, ma per fare qualcosa di molto vecchio e di molto nuovo assieme.
Per farne un laboratorio umano.
Per farne uno strumento di azione (e di comunicazione) sociale.
Mettendo insieme tradizione e innovazione.
Come?
Voi e vostra nonna in cucina a preparare insieme una torta.
Avete provato mai a immaginare quale scambio, quali racconti emergerebbero da un momento simile?
La cucina è fatta di gusto, di arte, di sapore, di conoscenza; la cucina è un mondo fatto di storie, odori, ricordi…
Gli anziani hanno moltissimo da insegnare rispetto a tutto questo.
L’incontro tra generazioni diverse è proprio una delle chiavi del progetto di Luana ed ecco cos’è la Cucina Narrativa attraverso le sue parole:
Oggi Luana fa l’imprenditrice: diffondere una nuova idea di ristorazione, una ristorazione responsabile e sostenibile promuovendo occasioni di incontro tra persone che mai si sarebbero incontrate, ecco la sfida (che qualcuno pensava irrealizzabile) e anche l’orgoglio di Luana.
Dal cook business al social business
La Cucina Narrativa è diventata il nucleo attorno a cui ruota il progetto Fork in Progress e la sua prima creatura: il ristorante Forquette a Foggia.
Una bambina silenziosa
Cerchiamo di conoscere meglio Luana, le chiediamo del suo percorso e scopriamo (ma non ci sorprende) che ci sono state tutta una serie di figure femminili significative che hanno contribuito alla costruzione della sua personalità di donna autonoma e intraprendente; donne speciali che hanno saputo dare fiducia ad una bambina silenziosa, forse troppo responsabile, che faceva fatica a esternare il proprio mondo interiore.
La professoressa Giuliana è stata la prima.
Qual è la miglior ricetta per infondere autostima e per rapportarsi nel modo più positivo ai giovani? Ascoltare e dare fiducia, questi gli ingredienti più importanti secondo il punto di vista e l’esperienza di Luana.
Forse il vero compito degli adulti è tutto qui.
E poi ci sono state altre figure femminili importanti che hanno saputo fare questo, mirabilmente, nel racconto di Luana. Vediamo quali:
Il sindaco di Foggia
La strada che ha portato la nostra protagonista a realizzare il suo progetto non è stata lineare. Un filo rosso a guidare i suoi passi di città in città, di esperienza in esperienza c’è sempre stato però ed è, secondo noi, l’impegno, la passione politica e civile che fin da piccola ha animato i suoi sogni e poi le sue prime esperienze.
Fuggi da Foggia?
Ma è vero che al Sud è strutturalmente impossibile fare qualcosa? Che si deve sempre e solo emigrare?
Luana non la pensa così e ci racconta il suo rapporto con Foggia.
Esiste un valore aggiunto delle donne sul lavoro? Ecco uno spunto di riflessione. Siete d’accordo?
É una cosa che vorresti fare? E falla!
Durante questo incontro, davvero denso, abbiamo riflettuto su tante cose. Pur senza nominarli abbiamo parlato dei cosiddetti neet che, nel nostro Paese, sono oltre due milioni: un esercito di giovani inattivi (sicuramente con problematiche diverse e non omologabili fra loro) tra i 15 e i 29 anni che non sono iscritti a scuola né all’università, che non lavorano e che nemmeno seguono corsi di formazione, stage o aggiornamento professionale.
Neet sta per: “Not in Education, Employment or Training” e tra di loro ci sono i giovanissimi che hanno terminato la scuola dell’obbligo (e magari lavorano in nero), i demotivati che hanno smesso di cercare un impiego perché dopo il diploma non sono riusciti a entrare subito nel mercato e ci sono i laureati che hanno acquisito competenze risultate subito obsolete per le richieste delle imprese. E ci sono anche molte, moltissime donne, spesso già mamme o in progetto di diventarlo.
Con Luana ci siamo interrogati sulle motivazioni più profonde che spingono alcune ragazze a considerare il lavoro come una chimera irraggiungibile, ci siamo chiesti cosa sognano le giovani donne e i giovani uomini che si trasformano in “invisibili” rinunciando alla ricerca di un lavoro.
Pur nell’ irriducibilità e nella complessità di una risposta, abbiamo provato a fare delle ipotesi.
Crisi a parte, politiche del lavoro sicuramente sbagliate o insufficienti escluse, cosa fa la differenza? Perché alcune/i nonostante tutto almeno ci provano e altre/i rinunciano in partenza o quasi?
La risorsa più importante? Il cervello
E se va male? È una domanda che conosciamo molto bene e che accompagna quotidianamente la nostra generazione di precari, costretta a convivere con l’incertezza e con la difficoltà nel fare progetti a lungo termine, a immaginare il proprio futuro.
Ma c’è qualcosa su cui possiamo fare conto in questa società liquida e priva di appigli?
Qualcosa c’è secondo Luana: lei non ha paura e ci esorta a non averne.